DOVE VA L’ENOLOGIA ITALIANA
DOVE VA L’ENOLOGIA ITALIANA
E’ indispensabile una premessa:
la grande qualità del vino è legata alla terra: spesso non a un intero vigneto ma a qualche sua particella. E può arrivare all’eccellenza se in quelle particelle un vitigno entra in simbiosi con il terreno grazie alla sensibilità dell’uomo.
Considerato che il vino si fa in vigna, sono le radici che fanno la differenza: bisogna quindi conoscere a fondo il terreno che è la vera risorsa.
Bisogna imparare a leggere la natura, capire la vite , entrare in sintonia con la sua vita, riuscire a leggere i messaggi che invia, anche i più piccoli, anche quelli minimi: il grande vino nasce così!
A portare le notizie è l’acino. Se si cerca il segreto che sta in lui si otterrà qualità unica e riconoscibile.
La magia dei vini è quella di portarci all’origine.
L’espressione più convincente dell’enologia italiana si ha quando un vitigno, in simbiosi con un particolare terreno, si esprime soltanto in quello specifico ambiente con una eccellenza che con quella varietà d’uva non è possibile raggiungere in nessun’altra parte del mondo. Tutti i prodotti agricoli hanno un territorio particolare in cui raggiungono una qualità eccezionale, dal pistacchio di Bronte al peperone di Carmagnola. Il vino non fa eccezione.
Per essere protagonista nel mercato mondiale, perciò, la nostra enologia ha una strada obbligata: deve valorizzare i territori in cui il connubio con un vitigno ha dato risultati irripetibili. Avendo coscienza però che i territori e i vitigni italiani sono molto più numerosi di quelli francesi, e quindi più difficili da far recepire, soprattutto in un mondo in cui la maggioranza dei palati è assuefatta al gusto dei pochi vitigni coltivati in Francia, ma anche in tutti i paesi nuovi produttori che hanno copiato la Francia.
Più che sui territori, tuttavia, l’attenzione è attualmente puntata in Italia sui vitigni autoctoni che si identificano con un territorio ben determinato, ed è un’attenzione più che giustificata, dal momento che questi vitigni, la cui uva è di maturazione più tardiva rispetto alle varietà internazionali, sono i più adatti a fornire vini di qualità in un contesto di cambiamenti climatici.
Non per questo sono da mettere al bando i vitigni internazionali, come troppo spesso si sostiene, perché anche questi hanno talvolta trovato in Italia un terreno a loro vocato: il Merlot coltivato a Bolgheri, per esempio, ha permesso di ottenere il Masseto, che con la sua affascinante mediterraneità ha conquistato cinque négociants francesi, che lo trattano sulla Place de Bordeaux, cioè nello stesso mercato del Petrus.
L’enologia italiana deve lavorare su due pilastri: territorio e sostenibilità, facendo conoscere i territori che hanno le caratteristiche per dare una qualità unica e riconoscibile, così da arrivare all’eccellenza.
In quanto alla sostenibilità, questa non può limitare la sua portata al rispetto dell’ambiente: deve anche esprimersi con la salubrità del prodotto e diventare una risorsa economica, per non cadere o scivolare nella sussistenza. Non solo: dev’essere intesa anche come ricerca, per valorizzare la natura nell’obiettivo di ricercare piante più autosostenibili.
Per più di 70 anni si è abbandonata una ricerca seria sui portainnesti né si sono studiati adeguatamente incroci o ibridi che negli odierni contesti climatici ci permettano di arrivare a una viticoltura biologica/sostenibile, come dovrebbe ma non sempre è.
Si avverte inoltre la necessità di macchinari più avanzati adatti a una viticoltura di precisione e a una più oculata gestione dell’acqua. Ma soprattutto non bisogna mai perdere d’occhio le risorse umane perché sono gli uomini che con le loro conoscenze e la loro sensibilità rendono importante un territorio.
Un monito, infine: attenzione alle parole. Non soltanto i vini ma anche le loro denominazioni devono essere strettamente legate all’ambiente da cui prendono vita. Il nome del territorio e basta, come per esempio Barolo, è la soluzione migliore. Anche solo abbinargli il nome di un vitigno può essere un errore: è stato necessario cambiare nome al clone di Sangiovese registrato come Brunello e iscrivere come Glera il vitigno del Prosecco per evitare che un’invasione di brutte copie facesse concorrenza sleale aglio originali. E poi basta con i nomi di fantasia che creano solo una grande confusione!
Donato Lanati